sabato 4 novembre 2017
Non scriverei oggi poesie, e
forse nemmeno le leggerei, se non avessi incontrato a 14 anni “I fiori del male“
di Baudelaire. Aveva ragione Cioran a intitolare “Da Adamo a Baudelaire” un
capitolo di un suo libro. Baudelaire fu un cambiamento epocale anche per me che
ero poco più di un bambino. Quando lo
lessi, fu la mia iniziazione sacra, la scossa nervosa che generò in me il
labirinto dei versi. E cominciai a vagare, fra libri, metropoli, illuminazioni,
deserti.
Quando intorno ai vent’anni raggiunsi
la terra desolata del mondo contemporaneo, Eliot fu il mio Virgilio in questo infernale
precipizio che lo sguardo di Laforgue affilò come la lama con cui Benn compì le
sue dissezioni sul cadavere del Novecento. Finché Mark Strand m’insegnò di
quanto oblio è fatto il mondo e seminò in me l’idea paradossale di un futuro. Borges
mi mostrò che labirinti e specchi hanno le loro sconosciute profondità.
Fra le donne, Emily Dickinson m’insegnò
la solitudine che rende liberi e Marina Cvetaeva la necessità che un grido
inconsolabile trafigga un cielo senza più preghiere. Negli ultimi anni Carol
Ann Duffy mi ha guidato verso uno sguardo ironico, sarcastico, strafottente,
con momenti di tenerezza sublime. Simic invece mi ha mostrato come la trascendenza
esista nei dettagli anonimi della vita.
E che dire di Rimbaud? “ Uomo
dalle suole di vento” nella formidabile definizione di Verlaine. Il “mistico
allo stato selvaggio” in quella di Claudel. La mia adolescenza ne fu tutta trafitta
e di visioni tatuata. Vagheggiavo anch’io di una qualche alchimia del verbo. E
di Pound? Garcia Lorca? Rilke? Whitman? Corbiére? Blake? Trakl? Majakovskij? Cendrars?
Brecht? Auden? Poe? Saint John Perse? Pessoa? Ogni
nome un’emozione diversa, una sottile introspezione psicofisica, un’indagine nel tunnel e nel sogno della parola, nella diamantina oggettività della poesia.
E dunque gli italiani: Leopardi, Quasimodo,
Campana, Montale, Gozzano, e un poco più
tardi Bigongiari, furono i maestri di una giovinezza riottosa, su cui
svettarono anche i grandi outsider
Pier Paolo Pasolini e Carmelo Bene a fomentare la rivolta contro i luoghi
comuni linguistici che ci perforano il cervello con la loro automatica
pesantezza. Poi, più recentemente, la
lettura di Jabès, la cui prosa rende indistinguibile poesia, misticismo e filosofia
e dà voce a un enigma ancora più potente.
Le sue interrogazioni non cessano di aprirmi orizzonti a ogni riga.
I nomi sono tanti, troppi. Nomi
più grandi del secolo, o addirittura “bigger
than life”, come dicono gli
americani. E così in questo istante questi nomi mi risuonano, vasti come il
mare della grecità in cui tutto ebbe inizio, quasi tremila anni fa, numi
tutelari di una vocazione più forte di ogni contemporaneo deserto.
Ettore Fobo
0 commenti:
Posta un commento