giovedì 12 marzo 2009
Ancora una volta con questo piccolo libro di poesie Guido Ceronetti si interroga e ci interroga sul tema del male, del dolore e della violenza, che impregnano un mondo in cui il poeta riconosce e nomina le ferite che un progresso scriteriato ha lasciato su quello che un tempo era considerato sacro, la natura per esempio, giacché “ ogni albero è un angelo ferito”. In queste ballate, spesso dal tono narrativo, vengono isolati alcuni momenti estremi della vicenda umana, dall’omicidio di Kennedy alla strage di Beslan, dai lager all’assassino dei Romanov, dalle Torri gemelle al patibolo di Beatrice Cenci, eventi che acquistano nei versi di Ceronetti tutta la loro drammatica realtà di schegge dell’occulto, manifestazioni di una crudeltà che non dà scampo, e che davvero lascia sgomenti il poeta e noi con lui, che lo seguiamo in questo itinerario, confidando nella possibilità di capire, e quindi di guarire dalle nostre personali inclinazioni all’orrore. La poesia per Ceronetti è un farmaco contro i mali del linguaggio e della vita, con la sua oscurità redime il chiasso che ormai ci assedia con i suoi artigli di luoghi comuni barbari e vaniloqui aggressivi e feroci, è una luce che riscalda il lamento delle inanità colloquiali, e con la sua misteriosa lampada d’enigmi appena sussurrati, svela le tensioni musicali del linguaggio. Talvolta può denunciare vite malvissute, che sono le propaggini di un male di vivere universale, che la poesia stessa ha il compito di rischiarare, ora con la presenza di un'addolorata ironia, ora con un sarcasmo che in Ceronetti è quasi pedagogico, più spesso con l’esercizio di una pietà, che non è per il poeta un semplice artificio retorico, ma la sostanza stessa del suo grido e della sua estetica.
Così in una delle poesie più toccanti, quella sulla strage compiuta dai due sedicenni di Novi Ligure, la figura del padre chiude i conti con l’orrore con il suo disperato perdono che, rielaborato nei versi del poeta, ci tocca ancora più profondamente, diventando egli il simbolo di un’umanità dolente, che non vuole rassegnarsi alle dinamiche del mostruoso. In alcune poesie, Ceronetti arriva anche a demistificare l’orrore, ma sempre mostrandoci in filigrana le trame di un fato invincibile, a volte facendo vibrare, nella musicalità dei suoi versi, il suo personale convincimento che tutto è sofferenza, e che talvolta davanti a certi comportamenti non c’è nessuna possibilità di perdono, come nella vicenda di quei bambini, e di quell’uomo che volle condividere la loro sorte, deportati nel lager di Treblinka e là uccisi con il gas o ancora nella drammatica storia dei bambini trucidati a Beslan. Sul tema del suicidio della figlia di Sironi tocca la vertigine di un pathos, traverso cui persino la luce sembra patire il dolore puramente umano di un padre che perde la figlia in maniera così terribile, su Rosa Vercesi, assassina dell'amica Vittoria, il poeta, che già le aveva dedicato un libro intenso, ha parole di sdegno e di condanna, diversamente quando il tema è quello delle vittime Ceronetti trova la luce di una dolorosa pietà. Sulla vicenda di Eluana Englaro, per esempio, tenuta artificialmente in vita da “macchine crudeli “Ceronetti ha parole intense e la poesia a lei dedicata è una delle più vibranti dell’intera raccolta. In un'Italia che congiura contro di lei per farla rimanere”priva di morte e orfana di vita “, solo il padre raccoglie il suo lamento, mentre il clero mostra tutta la sua intransigente assenza di pietà, accontentandosi di mostrare un ipocrita affetto, assuefatto alla sua “ fumata teologica” e persino il Dalai Lama china il capo, davanti alla richiesta di Nirvana della ragazza pietrificata da diciassette anni di coma. Altrove una dimensione metafisica viene accennata, ora nella denuncia di una sorta di maleficio, causa della distruzione delle Torri gemelle, ora nell’intuizione di entità soprasensibili contemplate, “nella grotta di Lourdes”, da una contadinella analfabeta.
Così fra casi di cronaca e fatti storici, fra metafisica e orrore per la Storia, Ceronetti lascia un potente affresco di versi, che indicano talvolta la via della salvezza, come nel caso della preghiera rivolta a Buddha, affinché ci liberi dalla prigione dell’io, “ fabbrica di dolore”, o nell’esaltazione di una virilità che va incontro alla morte con eroismo e coraggio, o ancora nel misterioso disvelarsi di realtà metafisiche, capaci forse di riscattare questi “ grovigli di umanità perduta” che rendono spaventosa la metropoli moderna. Come sempre in Ceronetti la folla umana è inquietante: ”Turba di oziosi, suburrani, servi" e i “pochi che hanno sensibilità e mente” sono vittime di questa” canaglia bruta”.
L’angelo ferito del titolo è un personaggio che la fantasia di Ceronetti ha ricavato dalle impressioni suscitate in lui dalla visione di un dipinto di inizio secolo, e da un racconto di Wells, ed è la figura che lega queste poesie, e dà unità ai vari passaggi del libro, che nella sua asperità disegna le forme di una contemporaneità mostruosa, in cui la salvezza è affidata al canto, farmaco necessario per guarire le ferite di una società che pare avviarsi sempre di più verso un pericoloso declino intellettuale e morale, verso un’atrofia dei sentimenti più complessi, procedendo verso un imbarbarimento che più volte l’artista ha denunciato nelle sue opere. Qualcuno potrebbe obiettare a Ceronetti che la sua visione è troppo apocalittica, ma la lucida coerenza con cui il poeta sgrana il suo rosario di versi illuminanti, a mio avviso, vanifica questa obiezione e il canto dell’angelo ferito continua a cerchiare di pietà i nostri sguardi, che tenendo testa all’orrore, cercano disperatamente altri sguardi in cui fondersi, per sfuggire alle “cattività dell’ombra”, alle bruciature dei”mentali roghi”.
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