giovedì 5 novembre 2009
Se la poesia è necessariamente impalpabile, inconoscibile, felicemente destinata per sua natura a naufragare nel silenzio, Il cimitero marino di Valéry mi sembra l’apoteosi di tutto questo, il condensato, insieme fragile e potente, di una molteplicità di visioni che, partendo dalla morte, arrivano a realizzare un poema di beatitudine assolutamente incorrotta, capace di farci superare le angosce del tempo presente e restituirci così il soffio imperscrutabile dell’eternità. E’ il tempo però il protagonista assoluto di questi versi, tempo di cui il mare è l’immagine più appropriata, e compito del poeta è dare ad esso una forma, che, come scrive Elio Franzini nella postfazione, offra ”nel suo movimento lo charme della grazia”.
Sono questi decasillabi in sestine rimate, che nella traduzione di Patrizia Valduga, vivono la loro epifania di congedo dal discorso quotidiano, per creare l’ignoto, e finalmente restituire alle parole il loro disincarnato fluire di onde marine. Alla base di questo poemetto, dice Valéry, non c’era in origine nient’altro che un ritmo ossessivo, cui bisognava dare forma e il poeta francese scelse un metro poco usato, il decasillabo appunto, forse per tentare di avvicinarsi all’endecasillabo italiano, lingua da lui conosciuta, poiché la madre era italiana. Sperimentare ”la calma degli dei “ è il premio per chi legge questi versi, la cui profonda, inafferrabile essenza mostra la naturale ambiguità del linguaggio, polisemantico e fondamentalmente inconoscibile. Il culto della forma, che Valéry ha ereditato da Mallarmè, e la condensazione apollinea delle immagini, tengono a freno lo scatenarsi dionisiaco del divenire, di cui però si mostra l’assoluta innocenza.
Qui la felice dissoluzione del pensiero poetante, ora in acquatica presenza, ora in bufera di vento, è evidenziata dalla porosità stessa della lingua, usata per far emergere quel tanto di indecifrabile che indubbiamente seduce. Perché questo breve poema ci sfugge da tutte le parti, non si può fissare, né classificare, è uno degli esiti più misteriosi del Novecento letterario. Quello di Valéry è fondamentalmente un canto di felicità e luce, sospeso fra mare e morte, in quel luogo dell’inconscio in cui le parole galleggiano come resti di un antico anelito all’infinito, che non può che sgomentare. Se “l’avvenire è torpore “, “il sogno sapere” noi possiamo accedere a quella realtà dimidiata che è un po’ il fulcro della nostra stessa personalità, per scoprire che la vita è vasta proprio in conformità con la sua stessa assenza.
Le tombe paiono are a Minerva, e, sebbene sepolti nei loro avelli, gli antenati, “padri profondi, teste inabitate”galleggiano ancora sulla superficie di un mare in eterno rinnovamento. E’ chiaro che fra il pensiero di Eraclito e quello di Parmenide e degli Eleati, Valéry preferisca il filosofo del panta rei, con la sua guerra di opposti, con il suo incessante divenire. Alla nostra stessa anima Valéry chiede di cantare anche dopo la morte, perché si impone in tutto il poemetto la sensazione che la morte stessa sia scongiurata, superata, trasformata in un'esperienza di rinnovamento poiché “ tutto va sottoterra e torna in gioco”. Se il cimitero è ”tempio del tempo”, nulla va realmente perduto, tutto si trasforma, e giacché “ s’ha da provare a vivere”, noi dobbiamo cogliere questi versi come la dimostrazione che “tutto fugge “ ma che in maniera misteriosa al tempo stesso perdura, anche se l’immortalità è una menzogna, una “scappatoia pia” che della morte fa “ un seno materno”, noi abbiamo una chance nell’affrontare con la nostra fragilità l’impeto del vento che spazza ogni cosa, con la fragilità delle nostre parole, affidate alla schiuma, possiamo affrontare persino l’ombra che ci “addomestica al suo frale andare”.
Il cimitero di cui Valéry scrive è un luogo di pace dove “angeli curiosi” incombono e “sogni vani “ e” prudenti colombe”nei pressi di un mare “leale”, su cui navi passano col becchettio dei loro flocchi. Tuttavia la presenza umana sembra svanita, la morte certo ci toglie la voce, ma in qualche modo il mare sembra conservare memoria di noi, ma bisogna stare attenti, anche a credere alle parole della poesia giacché sull’altitudine “… un sereno scherno/dissemina il sereno scintillare.” La parola della metafisica è insufficiente a dare conto dell’inarrestabile divenire della realtà, paragonata al mare, che ne diventa allegoria, mare il cui “tumulto al silenzio è pari “.
La letteratura stessa è simboleggiata nei versi finali da un libro che viene aperto e chiuso con violenza dal vento marino, ed è quindi poca cosa davanti all’enormità dell’universo, ma al tempo stesso forse è solo la letteratura, sembra dire Valéry, che può restituirci dei morti “il dire famigliare “, “l’anima singolare “. Dell’immobilità metafisica del meriggio il poeta, nella sua contemplazione, coglie il “segreto mutamento “, giacché questa sembra essere la l’ultima parola di Valéry: tutto è in movimento, tutto trasmuta; in questo c’è l’ebbrezza di un rinnovamento eterno e il cimitero con le sue spoglie, accarezzato da questo mare, è diventato così uno dei topos letterari fondamentali del secolo scorso, speranza e certezza di luce in un’epoca buia. La natura transeunte di tutto viene così esaltata in questi versi, la cui ambiguità permette loro di rimanere nella mente come misteriose essenze di un linguaggio ancora ignoto, che la poesia ha il compito di mettere in luce per l’istante della sua manifestazione, senza però rivelarne interamente il codice di interpretazione, lasciandoci così di stucco davanti a una miriade di possibilità semantiche. E’ lo charme, l’incantesimo stesso della poesia, che non è altro, forse, che meraviglia e stupefazione davanti all’ignoto, misteriosa rivelazione dei meccanismi, delle dinamiche, e delle voragini profonde del linguaggio.
Il cimitero marino- Paul Valéry - traduzione Patrizia Valduga - Mondadori.
Sono questi decasillabi in sestine rimate, che nella traduzione di Patrizia Valduga, vivono la loro epifania di congedo dal discorso quotidiano, per creare l’ignoto, e finalmente restituire alle parole il loro disincarnato fluire di onde marine. Alla base di questo poemetto, dice Valéry, non c’era in origine nient’altro che un ritmo ossessivo, cui bisognava dare forma e il poeta francese scelse un metro poco usato, il decasillabo appunto, forse per tentare di avvicinarsi all’endecasillabo italiano, lingua da lui conosciuta, poiché la madre era italiana. Sperimentare ”la calma degli dei “ è il premio per chi legge questi versi, la cui profonda, inafferrabile essenza mostra la naturale ambiguità del linguaggio, polisemantico e fondamentalmente inconoscibile. Il culto della forma, che Valéry ha ereditato da Mallarmè, e la condensazione apollinea delle immagini, tengono a freno lo scatenarsi dionisiaco del divenire, di cui però si mostra l’assoluta innocenza.
Qui la felice dissoluzione del pensiero poetante, ora in acquatica presenza, ora in bufera di vento, è evidenziata dalla porosità stessa della lingua, usata per far emergere quel tanto di indecifrabile che indubbiamente seduce. Perché questo breve poema ci sfugge da tutte le parti, non si può fissare, né classificare, è uno degli esiti più misteriosi del Novecento letterario. Quello di Valéry è fondamentalmente un canto di felicità e luce, sospeso fra mare e morte, in quel luogo dell’inconscio in cui le parole galleggiano come resti di un antico anelito all’infinito, che non può che sgomentare. Se “l’avvenire è torpore “, “il sogno sapere” noi possiamo accedere a quella realtà dimidiata che è un po’ il fulcro della nostra stessa personalità, per scoprire che la vita è vasta proprio in conformità con la sua stessa assenza.
Le tombe paiono are a Minerva, e, sebbene sepolti nei loro avelli, gli antenati, “padri profondi, teste inabitate”galleggiano ancora sulla superficie di un mare in eterno rinnovamento. E’ chiaro che fra il pensiero di Eraclito e quello di Parmenide e degli Eleati, Valéry preferisca il filosofo del panta rei, con la sua guerra di opposti, con il suo incessante divenire. Alla nostra stessa anima Valéry chiede di cantare anche dopo la morte, perché si impone in tutto il poemetto la sensazione che la morte stessa sia scongiurata, superata, trasformata in un'esperienza di rinnovamento poiché “ tutto va sottoterra e torna in gioco”. Se il cimitero è ”tempio del tempo”, nulla va realmente perduto, tutto si trasforma, e giacché “ s’ha da provare a vivere”, noi dobbiamo cogliere questi versi come la dimostrazione che “tutto fugge “ ma che in maniera misteriosa al tempo stesso perdura, anche se l’immortalità è una menzogna, una “scappatoia pia” che della morte fa “ un seno materno”, noi abbiamo una chance nell’affrontare con la nostra fragilità l’impeto del vento che spazza ogni cosa, con la fragilità delle nostre parole, affidate alla schiuma, possiamo affrontare persino l’ombra che ci “addomestica al suo frale andare”.
Il cimitero di cui Valéry scrive è un luogo di pace dove “angeli curiosi” incombono e “sogni vani “ e” prudenti colombe”nei pressi di un mare “leale”, su cui navi passano col becchettio dei loro flocchi. Tuttavia la presenza umana sembra svanita, la morte certo ci toglie la voce, ma in qualche modo il mare sembra conservare memoria di noi, ma bisogna stare attenti, anche a credere alle parole della poesia giacché sull’altitudine “… un sereno scherno/dissemina il sereno scintillare.” La parola della metafisica è insufficiente a dare conto dell’inarrestabile divenire della realtà, paragonata al mare, che ne diventa allegoria, mare il cui “tumulto al silenzio è pari “.
La letteratura stessa è simboleggiata nei versi finali da un libro che viene aperto e chiuso con violenza dal vento marino, ed è quindi poca cosa davanti all’enormità dell’universo, ma al tempo stesso forse è solo la letteratura, sembra dire Valéry, che può restituirci dei morti “il dire famigliare “, “l’anima singolare “. Dell’immobilità metafisica del meriggio il poeta, nella sua contemplazione, coglie il “segreto mutamento “, giacché questa sembra essere la l’ultima parola di Valéry: tutto è in movimento, tutto trasmuta; in questo c’è l’ebbrezza di un rinnovamento eterno e il cimitero con le sue spoglie, accarezzato da questo mare, è diventato così uno dei topos letterari fondamentali del secolo scorso, speranza e certezza di luce in un’epoca buia. La natura transeunte di tutto viene così esaltata in questi versi, la cui ambiguità permette loro di rimanere nella mente come misteriose essenze di un linguaggio ancora ignoto, che la poesia ha il compito di mettere in luce per l’istante della sua manifestazione, senza però rivelarne interamente il codice di interpretazione, lasciandoci così di stucco davanti a una miriade di possibilità semantiche. E’ lo charme, l’incantesimo stesso della poesia, che non è altro, forse, che meraviglia e stupefazione davanti all’ignoto, misteriosa rivelazione dei meccanismi, delle dinamiche, e delle voragini profonde del linguaggio.
Il cimitero marino- Paul Valéry - traduzione Patrizia Valduga - Mondadori.
2 commenti:
Molto chiaro, poetico, evocativo. Aiuta a cogliere l'a volte imprendibile voce del poeta. La possibilità di meditazione si fa più concreta e stimolata. Grazie.
Massimo
Grazie a te dei complimenti. Ciao.
Posta un commento