sabato 19 dicembre 2009
Mi sono immerso per l’ennesima volta in un libro di Cioran, e per l’ennesima volta la sua delusione cruenta, il suo scetticismo, il suo tagliente disincanto, mi sono parsi efficaci antidoti contro quella scriteriata e sempre esaltata voglia di vivere, che è alla base di tutto il fanatico dimenarsi delle persone umane, causa di così’ tante disgrazie, in ogni epoca e in ogni luogo. Lapidario, Cioran ha uno sguardo capace di disintegrare tutte le nostre illusioni, le favolette che ci raccontiamo per continuare a dormire, devastando il mondo con l’imperizia del nostro sonnambulismo. La sua convinzione profonda è molto semplice: “Tutto ciò che non è indifferenza è patologia”. Convinzione in profondo contrasto con quella fede nell’engagement che caratterizzava il pensiero di molti intellettuali negli anni in cui Sommario di decomposizione vide la luce, sul finire degli anni quaranta del secolo scorso. Le fedi, politiche, religiose, lungi dall’essere viatici verso la salvezza, sono propaggini di quel fanatismo che ci fa proiettare i nostri ardori dementi e le nostre follie ovunque, fino a fare del mondo quel “serraglio di alienati” di cui scrisse già Nietzsche, per puntellare con la stampella delle convinzioni “il fondo bestiale dell’entusiasmo”, per cui Cioran scrive che attraverso l’attaccamento a un’ideologia, o a una fede, qualunque essa sia , “il passaggio dalla logica all’epilessia è compiuto”.
“Perda l’uomo la sua facoltà di indifferenza, diverrà virtualmente assassino” e tutta la Storia e lì per provarlo, per cui le argomentazioni di Cioran mostrano come tutti massacri nascono dalla fondamentale incapacità dell’uomo di accettare il proprio vuoto. Come già in Schopenhauer ma in maniera forse più radicale, ”il principio del male sta nella tensione della volontà”, per cui le “larve che predicano”, coloro che sono abitati da convinzioni, coloro che vogliono essere “fonte di avvenimenti”, sono i peggiori nemici di colui che invece ha scelto la via del distacco da sé e che non crede più in nulla, si dissocia dal fanatismo dell’atto, e diventa un essere vuoto, senza sostanza, ma per questo non più vittima del “gioco universale”, non più aggiogato all’idea delirante di essere centro e fulcro dell’universo. Certo questo è pericoloso, se “la vita si crea nel delirio e si disfa nella noia”, riconoscere il proprio nulla, fa di coloro che si sottraggono all’universale delirio, dei fantasmi di anemia, dei traditori della specie. L’esempio estremo è il filosofo Diogene che liberatosi di tutto, morali, metafisica, buon gusto, uccidendo il maestro dentro di sé, e la sua vanagloriosa voluttà di cambiare gli altri, di migliorarli, di offrir loro l’esca di un sistema che li induca ad agire, è animato unicamente da “un orrore testicolare del ridicolo d’essere uomo”, raggiungendo quella dimensione in cui si mescolano “ saggezza, amarezza, farsa”. Cioran può così deplorare l’“’arroganza della preghiera”, poiché attraverso qualsiasi fede vince il desiderio di “perpetuarsi nell’’eternità”, e questo è il penoso delirio di grandezza di un individuo che ha smarrito ogni senso reale di sé, una forma di megalomania che irrita Cioran che a certo punto scrive, come in un’impennata di lucidità: “Chiunque non accetti la propria nullità è un malato di mente”. Si capisce così che l’umanità è per Cioran uno spettacolo insostenibile, ed egli non offre alcuna ricetta di salvezza, non propone nient’altro che la propria chiaroveggenza, l’uomo è un animale caduto nella trappola della storia, nell’abisso senza fondo dell’azione insensata, per cui risuonano ancora le parole di Pascal: “L’infelicità degli uomini viene da una sola cosa, non sapersene stare in pace in una camera”.
Ciascuno si inganna sulle proprie reali dimensioni, è allucinato dal proprio ego , così potente da desiderare di rispecchiarsi in Dio, sua estensione metafisica, e poiché “In ogni uomo sonnecchia un profeta e quando si risveglia c’è un po’ più di male nel mondo “, chi si dissocia dall’attività attraverso la pigrizia, dalla megalomania attraverso la modestia, riconosce il proprio nulla,”nell’amarezza di ogni cellula” . Breviario di tutti i disgusti, summa della modernità, “epopea della lucidità “ come scrive Mario Andrea Rigoni, Il Sommario è uno di quei libri che lacerano il velo di Maya delle nostre esaltazioni di bipedi sconvolti nel profondo da angosce incommensurabili. Per Cioran, “apolide metafisico “, come per tutti noi , non c’è più patria, in cielo o in terra, solo la solitudine ci spinge a cercare, nel gran caos delle nostre esistenze, qualcosa che assomigli al vuoto, che ci liberi finalmente dalle farneticazioni dell’agire, sempre epilettico, sempre insensato, giacché la vita è male, quaggiù, dove “i secoli si sono appesantiti e opprimono l’istante“,ed è un insulto alla beata pace dell’inorganico il nostro forsennato desiderio di esistere. Togliamoci dagli occhi le bende che la nostra vanità così premurosa ci ha fornito, guardiamo in alto, verso le stelle, l’enorme silenzio, l’assurdo vuoto che c’è lassù, è anche il nostro; fare questo affinché una “disciplina della sterilità”si impadronisca di noi, preservandoci in ugual misura dagli “ entusiasmi e dalle angosce”, e affinché, contro ogni morale della sensibilità ad ogni costo,“ nessun sentimento ci turbi più, e che l’anima diventi la più ridicola delle anticaglie …”.
8 commenti:
Cioran è la droga di se stesso, la perversione del nirvana da lui agognato. Leggere il Sommario fa parte di quelle squallide gioie di bipedi vanitosi e sedicenti semidei che svolazzano da una fede all'altra come api su fiori morenti.
Cioran ci spalanca il sipario, ma non c'è spettacolo alcuno: ridicolizza il nostro zampettare quotidiano e le baldorie periodiche, ma, scrivendo, prende parte del grande gioco dell'illusione. Disillude, illudendo. E' sempre un piacere quando qualcuno ti dice: non esite nulla, nemmeno tu.
L'importante è pensare: hai ragione.
Vero, Cioran è un ingannatore, quasi un poeta del nulla,ma lo dice.Paragona i filosofi del suo stampo, i grandi disgustati a delle prostitute"in un mondo senza marciapiedi".Ha sempre detto che scrivere era per lui una terapia,e ha mostrato oltre ogni ragionevole dubbio che la natura umana è avida di malessere. Coi suoi libri ha lasciato che il malessere stesso osservandosi si traducesse in un'esaltazione fredda e crudele. I grandi pensatori sono crudeli, non hanno pietà delle loro illusioni e le fanno a brandelli, ma già scrivere significa illudersi che le parole stesse abbiano un senso e non siano invece il risaputo balbettio di un infante o il grottesco ronzio di una zanzara.
passavo di qui e mi sono fermata volentieri.
Ciao, Lavieenvers, buon anno.
Complimenti per il tuo articolo lucido e completo.
Grazie, un saluto.
"Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle".
Ottimo articolo e blog
Grazie, Giuseppe. Un saluto.
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