La forma del tempo - Iosif Brodskij

sabato 24 novembre 2012








La prima impressione leggendo quest’antologia di Iosif Brodskij, La forma del tempo,  uscita quest’anno come allegato del Corriere della Sera, è che il poeta russo fosse legato a doppio filo con il nostro paese. Se il suo rapporto con Venezia è noto grazie anche al suo saggio Fondamenta degli Incurabili, in questo testo leggiamo per esempio, tra le altre cose, delle Strofe veneziane e delle Elegie romane, che confermano quanto Brodskij avesse a cuore l’Italia. Del resto,  queste poesie ambientate nel nostro paese sono state pubblicate in origine nell’antologia Poesie italiane,  edita da Adelphi nel 1996.

In particolare Roma vive in questi versi, città in cui caos, bellezza e storia  si contendono lo spazio: “Fracasso, macchine,/ teppaglia con siringhe in umidi portoni/ rovine[…]” realtà contemporanee a cui si contrappongono  Guscio di cupole,  vertebre di campanili,/ D’un colonnato,  disteso membro a membro, calma e voluttà”, dove la calma e la voluttà, oltre a riecheggiare Baudelaire, sono espressioni di un’animalità profonda della città che si esprime anche in questi versi “Guardando in su le cupole, mammelle della lupa, che allattati/ i due gemelli, si è rovesciata a dormire.

Venezia appare invece come una città onirica:  La città è un ammasso di porcellana/ e di cristallo rotto.“, o  ancora sembra  un “acquario in marmo, vuoto, / l’ideale per ogni risonanza.” In un luogo simile si può discorrere tranquillamente con la propria eco, si può osservare la propria ombra allontanarsi da noi esalando vapore, Brodskij può regalare visioni originali: “ E come un globulo bianco nel sangue traspare/ la luna nelle opere dei cantori, che bruciano di tisi, / ma dicono che è amore.”

Il soggetto scopre così la sua fragilità, in un “paesaggio/ capace di fare a meno di me” il poeta non può che sentirsi intruso, esule, straniero ma questa pare una dimensione metafisica, sostanziale, prima che biografica e accidentale- Brodskij fu in effetti un esule. Egli si definisce negativamente, riduttivamente: “cantore di inezie, linee rotte, assurdità”.

Così anche la scrittura non è d’aiuto, Brodskij ne descrive la pochezza, ne ridimensiona la portata: “sequela/ delle lettere in fila per un contenuto” quando  persino il fumo della sigaretta sembra avere più consistenza, salire più in alto,  dei “ pensieri dell’autore”. La conclusione è in fondo amara: “ (Se compone la penna, compone sempre poco).”

Sempre a proposito di Italia, c’è anche una poesia dedicata a Procida, “baia sperduta”, villaggio di pescatori in cui la vita passa lenta e il tramonto cambia leggermente colore alle calette, luogo forse desolato la sera, dove semplicemente “I vecchi guardano la partita al bar”.

Brodskij ha una rara capacità di cogliere i luoghi nella loro essenza con poche annotazioni naturali, “Le cicale non cantano più nei prati”, accostate a descrizioni di palazzi, spesso rovinati, “Sui frontoni si decifrano male/ le citazioni classiche”. Alcune poesie sono dedicate agli amici scomparsi: il poeta Wystan Hugh Auden nella poesia York, e il traduttore italiano di Brodskij stesso, Giovanni Buttafava, nel commosso e vibrante ricordo della poesia Vertumno.

Altre poesie hanno un respiro storico: in particolare Nunc dimittis, che è una rivisitazione della vicenda narrata nei Vangeli, vista però  da una prospettiva inusuale,  o Il busto di Tiberio, dove il poeta si rivolge proprio al busto dell’imperatore romano, uno dei più crudeli, con parole che suonano di ironica comprensione,  giacché “proprio i mostri la natura/ e non le vittime, assolutamente, crea a  sua immagine.” Qua e là, in questo tessuto di parole, affiorano e brillano aforismi di una potenza rara, come questo: ” La solitudine insegna l’essenza delle cose, poiché anche quella/ essenza è solitudine.” Possiamo anche isolare dei versi dove la potenza visionaria e onirica è evidente:

“ Dipinto con le tinte dell’alba un cane/ abbaia dietro a un passante color notte.”

In questi versi, in definitiva, i luoghi paiono divenire protagonisti, dotati ciascuno di un’anima propria, di proprie peculiarità che non sfuggono all’occhio del poeta che come una sonda le indaga. La riflessione di Brodskij si rivela infine filosofica, una meditazione sul tempo e sullo spazio:

Il tempo è più grande dello spazio. Lo spazio
è la cosa. In sostanza, il tempo è l’idea della cosa.
La vita è la forma del tempo[…]”














4 commenti:

eustaki ha detto...

brodskij appartiene alla mia tanto amata categoria degli esuli russi. siamo nel solco della più alta produzione lirica del novecento. fa piacere che l'italia sia stata così importante per la sua ispirazione, come per l'altro grandissimo russo del novecento, l''esule in patria' ossip mandelstam. ma se si parla di letteratura russa si aprono pianure nelle quali lascerei andare le briglie e per ore darei campo alla conversazione..
un caro saluto

Ettore Fobo ha detto...


Sì, Eustaki, aggiungo soltanto un’altra grande esule, Marina Cvetaeva, dalla vita così difficile. Fra tutti è la mia preferita, colei che conosceva bene la rilkiana “ verità del grido”. Un caro saluto a te.

mariadambra ha detto...

Di Brodskij non ho mai letto nulla, prima o poi correrò ai ripari.
Il titolo della raccolta, "La forma del tempo", mi fa notare come questo argomento "tormenti" gli scrittori di tutte le epoche. E se "la vita è la forma del tempo" quello che mi viene in mente è il tempo interno del mito, quella sorta di temporalità che nega se stessa, quel modo di vedere l'infinito come totalità e quindi quell'istituzione di un continuo che contenga anche il discontinuo e che realizzi così una sorta di tempo perfetto... e cosa meglio del mito rappresenta l'esperienza trascendentale della vita umana?
un abbraccio

Ettore Fobo ha detto...


Proprio in questi giorni sto leggendo Cristianesimo di Umberto Galimberti, che parla in maniera molto accurata del mito come quella realtà in cui il sacro si realizza pienamente, nella sua originaria ambiguità. Nel mito il tempo è ciclico, non c’è quella linearità che appartiene al tempo storico, non c’è spazio per quella razionalizzazione coatta che ci impedisce di attingere alle realtà primordiali, anteriori a ogni concettualizzazione. Perciò il mito è proprio quella realtà che “rappresenta l'esperienza trascendentale della vita umana”, come dici tu. Un caro saluto, Maria.