sabato 10 novembre 2012
Ci sono alcuni misteri, per me, nella storia recente della letteratura mondiale, uno di essi riguarda Dylan Thomas. Mi sono sempre chiesto come sia possibile che egli abbia ottenuto un così fulmineo successo neanche ventenne, con la prima raccolta Diciotto poesie, che ebbe vasta eco negli ambienti letterari inglesi e non solo. Intendiamoci, è un poeta che, dopo un’iniziale difficoltà e forse avversione, ho anche imparato ad ammirare, così oscuro, caotico, labirintico, elusivo, in una parola inafferrabile, uno dei poeti meno facili e più astrattamente visionari del Novecento. Il suo successo in vita rimane però per me un mistero. Un poeta così complesso ha in genere bisogno di svariati decenni, quando va bene, per imprimersi nella mente dell’umanità, invece Dylan Thomas a vent’anni era già considerato un fenomeno. Allora probabilmente entra in gioco il tessuto culturale in cui è vissuto, quello inglese, più propenso ad accogliere la parola di un poeta così astruso. E’ mia convinzione che se Dylan Thomas fosse stato italiano, per esempio, sarebbe rimasto un ubriacone incompreso, meglio ancora ignorato.
Lo leggo in questa storica
traduzione di Roberto Sanesi, in una silloge edita da Guanda nel 1976, e
intitolata semplicemente Poesie, la cui
prima edizione risale però agli anni Cinquanta, traduzione che rende giustizia
alla versificazione del poeta gallese, così ricca di metafore e analogie da far
girare la testa a chiunque. La critica si è giustamente spaccata la testa su
questi versi così enigmatici, con interpretazioni che rivaleggiano con i versi
stessi in complessità, stranezza, astruseria. Perché è presente un tessuto
mitologico rivisitato, soprattutto di ascendenza giudaico – cristiana, perché
ogni verso è colmo d’immagini che si affastellano e si contraddicono, perché
l’originalità del dettato sfiora il delirio, e allora bisogna intendersi sull’etimologia
della parola “delirio”: DE = da, indicante allontanamento e LIRA= solco, letteralmente uscire
dal solco.
Il solco in questo caso è il
linguaggio comune, che Dylan Thomas trasforma in una rutilante congerie di
metafore e in uno squillante agglomerato di analogie e visioni scaturite dal
suo intimo, dall’inconscio stesso:
“Come
un altare in luce di civetta nella casa a mezza via/ Il signore mentiva rivolto
alla sua tomba con le furie;/ Abbadon nella pelle dell’unghie strappata da
Adamo/ e dalla propria forca, cane fra le fate, /il divoratore d’atlanti goloso
di notizie/ mordicchiò la mandragora con urlo di domani.
E’ evidente che ci troviamo
innanzi a un enigma, io personalmente ritengo che l’enigma sia una sfida al
senso comune, e che qualsiasi tentativo di parafrasi lo impoverisca. Trovo
eccitanti alcuni accostamenti ”cane fra le fate” e
mi attira l’espressione “urlo di domani”, rimango
perplesso innanzi
al “divoratore d’atlanti goloso di notizie” e
mi chiedo se in Abbadon non sia prefigurato l’uomo moderno, ossessionato dalla
stampa, che trasforma la lettura del giornale nella sua preghiera laica
quotidiana, come ebbe a scrivere Hegel.
Da un lato avverto l’imbroglio
consapevole di questi versi, dall’altro sento che siamo entrati nel regno della
poesia pura, quando si cessa di raccontare e si giunge all’immediato di una
vertigine semantica non parafrasabile. E’ l’essenza della parola poetica, che
può persino cessare di comunicare un senso per attingere al segreto non
altrimenti comunicabile dell’esistenza.
Ne I nostri sogni eunuchi
si parla del cinema in una maniera che ricorda le critiche rivolte ad esso da
Adorno:
“
In questa nostra età il pistolero e la pupa/due spettri ad una sola dimensione,
si amano/ su una bobina, piuttosto strani al nostro occhio solido[…]/ Guardiamo lo spettacolo
delle ombre baciarsi od uccidere/ in un gusto di celluloide rendere tutto
l’amore una menzogna.”
O ancora leggiamo:” E’ questo il mondo: bugiarda apparenza/ dei
nostri fotogrammi di sostanza[…]
dove l’illusione cinematografica
rivela la sostanza stessa di un mondo illusorio. I sogni eunuchi sarebbero
allora quelli dati dal cinema, sogni castrati che in nessun modo possono sostituire
quelli creati dalla nostra immaginazione, quando essa, come in queste poesie,
si libera dai vincoli del realismo e scivola nel regno della pura astrazione.
E qui tocchiamo una delle corde
più risonanti del poeta gallese, se la vita è illusione, la poesia si fa carico
della sua ambiguità e la restituisce, se possibile amplificata. Dietro c’è
un’urgenza, una visione che non può che essere violentemente intrisa di tutte
le contraddizioni dell’esistenza, quando nascita e morte sono due facce di una
medaglia sporca di sangue.
A volte in Dylan Thomas pare
affiorare una visione quasi olistica, di estrema fusione di tutti gli elementi
naturali, per esempio nella famosa poesia La forza che attraverso la verde miccia sospinge
il fiore, dove la “ forza che l’acqua sospinge
attraverso le rocce/ sospinge il mio rosso sangue” e
la forza che fa crescere il fiore è la stessa che muove la giovinezza del
poeta: il regno vegetale è così fuso a quello animale. Quella di Dylan Thomas,
è sostanzialmente una poesia oscura, dove “oscurità
soltanto/porge benedizione”, e i “fulmini dell’adorazione tornano/ a fondersi in
un nero silenzio[…].
Di quest’oscurità, indifferentemente, ci si può inebriare o nauseare. Sulla
difficoltà e sull’oscurità della sua poesia ecco cosa ebbe a scrivere egli
stesso in un’occasione:
“Mi sembra assurdo che tutta la buona poesia debba necessariamente
essere semplice. Non vedo alcuna necessità per cui le più grandi verità del
mondo, e le più grandi variazioni di tali verità, dovrebbero essere così
semplici da essere capite dalla mente più ingenua. Vi sono cose, e cose
preziose, così complicate che anche colui il quale ne scrive non capisce che
cosa sta scrivendo. “
Così la sua è una poesia che
nasconde e si nasconde in una selva d’immagini che possono apparire anche
incongrue o gratuite, poesia che rimane come
mappatura non sempre decifrabile del reale. Cogliamo una contraddizione, la
poesia di Dylan Thomas è insieme estremamente materica e completamente
astratta. In questo senso qualcuno l’ha avvicinata agli esiti della pittura
informale.
La potenza visionaria erompe
in versi
come questi, tratti da Poesia sul suo compleanno: “
In un cavernoso silenzio travolto dall’onda / rintocca a morte
il pianto di un angelus bianco. / Trentacinque campane cantando percuotono/ Il
cranio e la ferita dove gli amori hanno fatto naufragio/ guidati da stelle
cadenti.”
Visione cupa, funebre, in questi
versi scritti presumibilmente per il trentacinquesimo compleanno del poeta,
dove possiamo notare alcune parole chiave di Dylan Thomas, “naufragio”
e, soprattutto, “ferita”.
Bisogna abbandonare ogni
scetticismo, ogni pudore e seguire il poeta nel suo folle volo, oppure rimanere
a terra osservando i misteriosi, a tratti affascinanti, a tratti irritanti, movimenti
delle parole, come stormi sopra il nostro capo?
Leggendo questa silloge si rimane,
infatti, sostanzialmente sconcertati, incerti se ammirare il turbine di
allegorie che la compongono o di deplorarlo, incerti se rimanere affascinati
dal dettato misterioso e colmo di echi, o se accusare il poeta di aver messo in
piedi un imbroglio. Dylan Thomas sembra così portare all’estremo tutte le
ambiguità della poesia, e viene amato o odiato con identica furia.
5 commenti:
Ho letto poco Dylan Thomas, qualcosa anni fa, e in effetti di quelle letture che non ricordo mi è rimasto il segno di qualcosa di incerto che si trova a metà tra lo sconcerto e la malìa.
E ora mi fai pensare che questo è molto di quello che desidero trovare nella poesia. Che per tutto il resto esiste la prosa (e la prosa di confine).
Sono contenta che tu ne abbia scritto.
Ciao, Ettore
Elena
Poeta in cui perdersi... visitai i suoi luoghi gallesi per conoscerlo e per viverlo meglio.
Mi restò sempre però un po' alieno... come se vi fosse una patina, un velo fra me e le sue parole.
Logos
@Elena
Leggo le poesie di Dylan Thomas da diversi anni. Sono insieme affascinato e respinto, non so ancora bene quale delle due sensazioni sia più forte. Ammiro l’enigma e temo l’imbroglio, due parole che, comunque, secondo me, raccontano bene l’essenza, sempre sfuggente, della poesia. Ciao Elena.
@Logos
Capisco perfettamente, Logos; un velo, una patina, una coltre di sensazioni sottili, separa anche me da Dylan Thomas. Non a caso l’ho definito inafferrabile.
dylan thomas è un poeta che amo molto. la sua materia lirica è magmatica, avvolgente, un susseguirsi di metafore, come giustamente noti anche tu che sono come lava che ribolle e da un'immagine ne scaturisce un'altra che ne genera altre a grappolo, a cascata. è un poeta che va letto e riletto, possibilmente ad alta voce in lingua originale. fern hill, per esempio, è uno dei testi poetici più belli dell'intero novecento.
a presto
@Eustaki
Ho letto di recente l’ispirato articolo che gli hai dedicato. L’ho fatto dopo aver scritto questo post, gironzolando sul tuo blog. Naturalmente comprendo la tua passione per Dylan Thomas, anche se io personalmente sono ancora in una fase di studio e di oscillazione. Fase che dura da quindici anni! Ricordo anni fa di aver ascoltato alcune poesie di Dylan Thomas recitate da lui stesso e di esserne rimasto affascinato, mi ha colpito soprattutto la sua voce. Ho trovato inoltre straordinario il suo romanzo incompiuto Avventure nel commercio delle pelli. A presto Eustaki.
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