sabato 2 maggio 2015
Trovo questo libricino, poco più
di 120 pagine, sulla bancarella di un libraio da cui mi servo da una decina
d’anni. S’intitola laconicamente Poesie.
L’autore è Evgenij Evtušenko, il
traduttore Alfeo Bertin. È un libro Garzanti del 1975 che raccoglie le
poesie giovanili del poeta russo, tutte scritte negli anni Cinquanta e i
primissimi anni Sessanta (Evtušenko è nato nel 1933). Sono poesie interessanti,
benché a tratti acerbe, com’è giusto che sia. Colpisce la strana concretezza di
questi versi; accanto alle liriche d’amore tipiche dei poeti di vent’anni, si
trovano versi in cui la terra natia è rimpianta o descrizioni accorate della vita quotidiana fra
stazioni, osterie, miniere. Tutto è raccontato con una sorta di realismo
visionario, per cui la vita quotidiana del contadino russo è colta nella sua
vertigine d’universale, la vita dello studente è quasi epica nella sua
modestia, le nozze di un soldato, che sta per partire del fronte e che forse
non tornerà, acquistano una coloritura tragica. Sono poesie molto umane, calde,
in cui la giovinezza del poeta erompe e straripa. Sono poesie politiche nel
senso più alto del termine, nel senso etimologico di poesie della polis ma sono anche poesie naturali,
che mettono i panorami della tajgà
al centro o cantano il paesaggio russo
innevato. La neve è protagonista di una poesia stupenda, tutta giocata sulla
sua attesa. La prima neve si scioglie in mano, la seconda sotto i piedi, solo
la terza è destinata a durare.
“Cadeva e cadeva/ nel baccano dell’alba/fra il rombo delle macchine e
lo sbuffare dei cavalli, / e sotto i piedi non si scioglieva anzi diventava più
compatta.”
Così fra l’antichità
rappresentata dallo “sbuffare dei cavalli”
e la modernità incarnata dalle automobili, Evtušenko racconta di un’epoca di
transizione fra il vecchio e il nuovo, di un dopoguerra in cui la speranza si
rifà viva dopo le terribili disperazioni della guerra, pure da lui vissuta
come bambino, con la spensierata
incoscienza dell’infanzia, così bene descritta in versi come questi:
“Hitler era alle porte di Mosca. / Ma noi… / noi non eravamo altro che
ragazzini/ e prendevamo molte cose alla leggera. “
Ancora una volta la Storia cozza
con le vicende quotidiane, la vita del collettivo con le istanze
dell’individuo.
In queste poesie le due realtà,
quella storica e quella individuale, cercano - e trovano - un equilibrio.
È la forza di versi che hanno la
realtà politica come sfondo su cui si proietta però il film della vita
quotidiana che ha il popolo come protagonista; il popolo con la sua miseria, la
sua allegria, la sua umiltà, la sua quieta grandezza, “perché l’essenza del popolo/ è la bontà.” Forse c’è della retorica
in questa visione ma l’epoca permetteva ancora che questa retorica fosse
credibile. Così lo straordinario poema La
stazione di Zimà è tutto giocato sulla nostalgia del paese natale
(Evtušenko è nato proprio a Zimà) e insieme sull’impossibilità di farvi
realmente ritorno, giacché affiora la consapevolezza eraclitea che “Non è possibile bagnarsi due volte nello
stesso fiume”. Le vicende storiche hanno mutato il poeta che non è più un
bambino ma un giovane adulto che cerca la sua strada. Ma il pensiero torna
sempre ai luoghi famigliari, con quella intensità che è rintracciabile spesso
nella poesia russa.
Per Evtušenko i vent’anni sono un
periodo di ripensamenti e anche di scoperte. Così il poema inizia con delle
riflessioni espresse quasi in maniera aforistica: “ Quanto più adulti, tanto più sinceri/ si diventa. Di questo ringraziamo la sorte. / E della
vita i cambiamenti esteriori/ coincidono con importanti cambiamenti interiori”
Questo filo che unisce
interiorità e vita attiva è ben visibile in tutte le poesie del poeta russo, e
soprattutto ne La stazione di Zimà,
dove una dimensione di intimismo si fonde con le impressioni vivide di un
viaggio, dove l’estate respira calda nell’osteria del paese, personaggi affiorano descritti con impetuoso
realismo (il maestro, il taglialegna, le sguattere, un intellettuale occhialuto),
perché il quadro di Evtušenko è concreto e ogni personaggio racconta qualcosa
di lui stesso e del popolo di cui è il cantore. Ecco, il poeta russo incarna
qualcosa, la voce di questa povere gente vessata, come sempre e dappertutto,
dai potenti. Però, egli non denuncia la
classe dirigente sovietica del tempo,
non si ribella ai dogmi del partito; ciò gli permise negli anni Sessanta di
divenire poeta ufficiale del suo paese.
Il quadro è sempre di grande e vivo realismo
come nelle poesie Sull’umida terra,
dove è raccontata, velatamente ma in maniera chiara, la passione erotica per
una contadina, e All’osteria della
miniera, dove un interno di personaggi variegati cerca il divertimento per
sfuggire alla disperazione e il poeta,
più disperato di tutti, trova conforto nel sorriso di una cameriera.
Ricordarsi delle proprie origini,
delle proprie radici, è fondamentale e si vede anche nell’incipit del poema Di dove
siete voi?: “ Nato nella
steppa,/ricordati della steppa;/ nato nella tajgà, / ricordati della tajgà.”
La vicinanza emotiva con la terra natia acquista toni di grande esaltazione,
che fanno gridare al poeta che Zimà e la sua gente sono per lui ”l’anima, il sangue.” Egli dunque si
fonde con la sua terra, con le sue genti, in un abbraccio fusionale in cui non
si smarrisce ma che gli conferisce identità.
Così Zimà è sempre il luogo
principe, anche in questo poema; si trova nella tajgà russa e il poeta ne descrive, estasiato, le bellezze naturali
e i suoi frutti: il mirtillo rosso, i lamponi, il ribes, le fragole, in una
realtà che l’umano condivide con gli animali, soprattutto cerbiatti, caprioli e
orsi.
Con durezza Evtušenko si rivolge
a chi ha dimenticato la terra natale, se “lo
spirito del Volga” cessa di avere influenza e i versi risultano ispirati
più dalla vodka, è perché l’amico ha dimenticato, rinnegato, le proprie origini. Ciò nonostante è possibile
essere forestieri anche nel proprio paese, annoiarsi alle feste comandate,
trovare tutto stupido e insipido, come capita a Nina, una delle protagoniste di
questo poema.
La visione di Evtušenko, però, è
positiva, sintetizzata in questi versi in cui la giovinezza è esaltata, fonte
di ardimento:
“Oh noi, nostra generazione!/Noi siamo soltanto lo scalino, non la
soglia. / Noi siamo soltanto l’introduzione a una introduzione, / il prologo a
un nuovo prologo./Nella vita entriamo con ardimento e cattiveria,/ come si
conviene a giovinezza,/ non vogliamo non-verità o mezze verità, / vogliamo
soltanto la verità:”
Così in definitiva Evtušenko
ricorda Whitman, per la fiducia nella gente comune, per il respiro oceanico dei
suoi versi, per la vividezza nella descrizione della natura, per il sentimento
della vastità, cui il poeta sente di apparenere in anima e sangue. Certo un’ombra lo oscura: aver fornito un
linguaggio esatto e vibrante alla retorica dell’establishment russo. Così con
la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica anche la sua fama si è un po’
appannata ed egli non è più letto come in passato.
7 commenti:
La poesia (come la letteratura in generale e la musica) russa lascia un retrogusto particolare in bocca. A me lo ha sempre lasciato. Credo che la storia di quell'immensa terra che ha sorretto regimi di diversa natura (prima vestiti con i fasti degli zar, poi con l'essenzialità del comunismo)si sia inesorabilmente mescolata alla percezione dei poeti (e degli artisti)russi. Vi ho sempre trovato un senso di malinconia, di celebrazione triste, anche nel sorriso; una sorta di rifigio nelle piccole cose, nei piccoli gesti che poi, alla fine forse, tanto piccoli non sono mai stati.
Non credo sia stato facile, in nessun tempo, vivere nella consapevolezza di una potenza grandiosa (la Russia si è sempre distinta per questo) e, nel contempo, essere altresì consapevoli dei limiti e della mancanza di libertà che essa richiedeva. Molti poeti (artisti) si sono ribellati ed hanno pagato per la loro scelta; altri, come Evtusenko, no, diventando - come scrivi anche tu - poeti (artisti) del regime.
In ogni caso non sono mai riuscita a restare indifferente all'arte russa (in ogni sua forma, quindi anche poesia).
@Lisa
L’impressione in me lasciata da molti scrittori russi è indelebile. Da ragazzino fui folgorato da Dostoevskij e da Gogol. Poi si aggiunse Majakovskij e negli ultimi anni la straordinaria Marina Cvetaeva. C’è una malinconia e una disperazione tipicamente russe, non v’è dubbio, che cozza con la loro grandeur.
Sí, conosco la Cvetaeva. :)
Buon sera, ho in questo momento tra le mani il suo stesso libretto di poesie di questo scrittore; l'ho trovato in una libreria di casa e non ricordavo di averlo; ne ho lette alcune, le trovo bellissime, amo molto la poesia "che racconta", qui ci sono storie, persone, situazioni di un tempo più che reale mitico. Penso che se ne sarò capace di questa raccolta scriverò qualcosa. Complimenti per questa sua puntuale e interessante recensione
Dianella
Poeta profondo. I suoi paesaggi innevati mi sono rimasti dentro. Grazie Dianella.
Condivido i suoi commenti, ho una predilezione per la letteratura russa, soprattutto Cecov e Dostoevskij, i poeti a volte sono "difficili", cioè di non immediata comprensione, ma quelli russi che conosco li adoro, ad esempio Achmatova e Blok.
Sì, c'è questa presenza della neve, del ghiaccio, del freddo nella letteratura russa, di cui però a volte i personaggi non si curano, immedesimati come sono nei loro problemi spirituali, come in Dostoevskij.
a rileggerla
Dianella
La poesia russa è eccezionale. In questo blog si possono trovare commenti a libri di Aleksandr BloK, Marina Cvetaeva, Josif Brodskij. Grazie del supporto Dianella.
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