sabato 4 marzo 2017
Adonis perfeziona una lingua
sospesa fra surrealismo e una molto contemporanea scarnificazione della parola.
Arriva a condensare una miriade di concetti, impressioni, sensazioni, in pochi
versi.
Prendiamo qualche riga presa dal poemetto
in prosa Tomba per New York, contenuto in questo Memoria del vento, nell’edizione Guanda
del 2005, tradotta da Valentina Colombo e introdotta da Giuseppe Conte:
“Tra Harlem e Lincoln Center,
avanzo come un numero smarrito
in un deserto ricoperto dai denti di un’alba nera. “
Sono immagini potenti che
costituiscono da sole una descrizione esatta di quello che proviamo in quanto
uomini contemporanei nel contatto con la metropoli, New York in questo caso, dove il poeta passò un periodo della sua vita.
Alla città americana, simbolo di
un occidente consumistico, alienato e nichilista, Adonis, siriano naturalizzato libanese, contrappone Beirut, città amica della sua giovinezza, luogo per cui
il poeta nella parte finale di questo
poemetto, pubblicato nel 1971, invoca la
pace. Invocazione che non fu ascoltata dal destino, che inflisse negli anni fra il 1975 e il 1990 alla città libanese un periodo di
sanguinosa guerra civile.
Adonis è definitivo nel descrivere una città come
New York e vedere in essa il simbolo di
quell’Occidente che con una mano solleva ”la
pezza che chiamano Libertà” oppure agita i “fogli che noi chiamiamo Storia” mentre con l’altra “strozza una bambina che si chiama Terra”.
Così con una sorta di dizione
biblica, Adonis già al principio degli anni Settanta partecipa della
contemporanea disfatta di ogni discorso ecologico, in nome di un’entropia
causata dall’inesausto macinare e rullare di quel grande macchinario che è la
Storia. Macchinario al servizio della Tenebra, probabilmente.
New York è il simbolo di un mondo
alienato, come già in Ginsberg che
scriveva di un Moloch fatto di carne e metallo, Adonis conferma che si
sacrificano uomini al “grande idolo”
cui sono devoti coloro che detengono il potere, come Richard Nixon, presidente degli Stati
Uniti al tempo in cui il poemetto fu scritto,
esecrato ripetutamente dal poeta.
Colpisce la modernità di questo
poemetto, modernità di contro-inno, dedicato a una città enorme e orribile per
Adonis, che in essa vede “ uno specchio che riflette due volti: Nixon e
il pianto del mondo “, in un’
America che ha tradito la sua iniziale propensione alla libertà e in cui il poeta invoca prima Lincoln, poi
Whitman, come per trovare una comunanza ideale, con spiriti a lui affini.
Così la città è raccontata come un incubo in cui si materializza
un’equazione inquietante :
“New York + New York= la tomba oppure qualsiasi cosa provenga dalla
tomba.
New York – New York=
il sole”
Così Adonis configura uno straordinario
atto d’accusa contro una città che è
simbolo di un mondo oltre ogni limite,
capitalismo in delirio, tumulto di folle e perdizione del numero…
La nostra è un’epoca di
distruzione, in cui gli Stati Uniti hanno un ruolo fondamentale nel perpetuare
l’orrore e la guerra. New York è qui tratteggiata come un incubo, c’è un certo
surreale espressionismo all’opera ma
anche riflessioni politiche, letterarie, filosofiche.
Ecco un tema potente:
“La battaglia si svolgerà fra l’erba e i cervelli elettronici.”
Qui dove la città è un “esercito di lacrime” e si perpetuano
delitti, New York è colpita al cuore da un profondo sgomento. La dimensione
allegorica aumenta sempre più in questo poemetto, che appare in definitiva un importante memento per la nostra collassante civiltà. Si annega nel melmoso anonimato della folla,
si vaga spettrali in un panorama di palazzoni ancora più spettrali, una
violenza spaventosa aleggia sull’orlo di
un perenne Delitto assurto al rango di Divinità nera. Tutto questo trova a New
York il suo vertice, esplode. Ma lo scenario può cambiare improvvisamente ed
ecco spuntare una considerazione illuminante sulla parola, sulla sua natura
profonda:
“La
parola è più leggera di un oggetto e
trasporta ogni cosa. L’azione è una direzione e un istante, la parola è tutte le direzioni e tutto il tempo, la mano, la mano, il sogno”.
Le altre poesie di questa
raccolta testimoniano di una ricerca fra le più vibranti della nostra epoca, in
cui la metafora diventa spazio di una reinvenzione del mondo, come nota
Giuseppe Conte nell’introduzione. Ma queste pur belle poesie, però, non hanno sempre la forza di Tomba per New York, sono
poesie interessanti ma che a volte smarriscono il filo d’Arianna e ci spostiamo
allora in un labirinto di miraggi a volte troppo surrealisticamente deformati e
deformanti. Molti di questi sono
comunque versi giovanili di un poeta ancora in cerca della propria voce
profonda.
Altrove il poeta è insieme” profeta e insinuatore di dubbi” o ancora
” incantatore di polvere, vittima
di una sorta di “febbre profetica” i
cui canti sono ”scintille”.
Adonis fonde la poesia araba con
quella occidentale, muovendosi fra Rilke, Holderlin, Baudelaire e altri, creando questa lingua di grande precisione
visionaria.
Tomba per New York mi sembra
la manifestazione più potente e compiuta, fra le opere qui antologizzate - insieme
alla poesia Origine della distruzione e la sublime Origine del discorso, entrambe del 1980 - e rivela in
Adonis una voce fondamentale, una voce autorevole per capire il nostro tempo, in cui le voci si
moltiplicano a dismisura e allora si salvi chi può. “Abracadabra vociferante” lo chiamava Montale.
0 commenti:
Posta un commento