mercoledì 6 gennaio 2010
“Ma adesso basta, io ardo/di magma e di nucleo, /di prequaternario e primordi, / via da parola, bronzo e scrittura”.
Gottfried Benn
“Frammenti, / espurghi dell’anima, / coaguli di sangue del ventesimo secolo” sono questi gli estremi sussulti che l’ispirazione in declino di Gottfried Benn lascia brillare in queste che sono due tra le sue ultime raccolte di versi, Frammenti e Distillazioni, che Einaudi ha pubblicato in un'unica soluzione, qualche anno fa, nella traduzione di Anna Maria Carpi. Autore di alcuni dei libri più memorabili del Novecento, il poeta tedesco ebbe la sventura di infatuarsi del nazismo, per poi rinnegarlo dopo poco, ma lo stigma gli rimase addosso per tutta la vita, impedendogli di raggiungere in vita quella notorietà che la sua opera avrebbe meritato. Subì un doppio ostracismo, prima da parte dei nazisti stessi, che mai si riconobbero nelle parole di questo outsider, innamorato di Nietzsche e che addirittura gli proibirono di pubblicare i suoi libri, in seguito da parte degli alleati che mai gli perdonarono la sua iniziale e breve adesione al nazismo.
Benn cerca la dissoluzione dell’ego, una regressione ai primordi pre-umani, un ritorno alle origini, che tradisce il suo fondamentale nichilismo,così questa raccolta testimonia della crisi di un’epoca, del suo declino, di un’interiorità avvolta nel bozzolo di un’inquietudine che solo il consumo di cocaina e alcol ha potuto alleviare, ma non si trova nelle sue parole nessuna esaltazione del vizio, si beve per “ coazione, impulso, fuga” . Anche la fede nella scrittura sembra vacillare, Benn sottopone la sua parola a una lacerante scarnificazione, e “distruzione” è una delle parole più ricorrenti nelle due raccolte, dove “ persino le rovine invecchiano”, rimane solo una domanda senza risposta: “perché esprimiamo qualcosa ?”.
Per questo esteta, la cui creatività andava spegnendosi, esistono solo abbozzi di risposta, “un priapismo formale”, un’eccitazione fine a se stessa, spinge la mano a tracciare i suoi ghirigori letterari, quando l’uomo è una creatura probabilmente penosa, costretta da un “interno vuoto” a ricercare nella scrittura la realizzazione di una possibile catarsi. Poiché “ciò che grande ha in sé la sua rovina” nulla sfugge alla dissoluzione, i regni passano, le idee si frantumano, cosa rimane? Per il poeta tedesco pare non esserci una soluzione positiva, né individuale, né collettiva, “brandelli di conversazione “, “ suoni morti”, “ultime luci, lungo bui giardini “ sono ciò cui inutilmente ci si aggrappa.
E’ l’impasse di un'ispirazione che vede la propria dissoluzione, le poesie registrano il declino personale e quello di un’epoca, e nemmeno l’arte, feticcio della giovinezza, può dare giustificazione all’esistenza, che rimane così mutilata del suo senso e delle sue profondità ignote. Allora non resta altro che celare se stessi “ con maschere e trucchi”, appagarsi unicamente di frammenti di voci appena udite, e subito dimenticate. Vi è in questi versi il riecheggiare della disfatta, una stanca nostalgia della vita, un’arida consapevolezza da cui non germoglia che l’anelito a un cielo” prossimo a spegnersi “.
Una “ smania di trasfigurazione “, destinata ad essere delusa, abita nel profondo di ognuno, ciò che si costruisce per l’eternità, nel “ flusso del tempo” ritorna “frantume”, il tempo logora ugualmente religioni, rose, torri, così “tutto va in pezzi, in attimi/ si frange rabbrividendo”. Ma se il tempo è condanna alla consunzione, “ che è davanti agli oceani ?” si chiede il poeta, aggiungendo che essi “c’erano prima/ di concepimento e coscienza”, così davanti a questa vertigine di regressione ai primordi della vita Benn sembra trovare il tanto agognato riscatto dell’esistenza tutta, altrimenti destinata a essere un “crollo” e una caduta senza alcun senso. Poco amante dei viaggi, Benn ha però una sensibilità particolare, capace di rendere allo sguardo l’incantesimo di terre lontane, la cui magia è però spesso tutta nel suono del loro nome, così La Paz, Fiesole, Ohio sono i segni musicali cui il poeta tributa una venerazione unicamente uditiva; ma su tutti i luoghi “ sull’estraneo, il lontano” incombe indifferente e feroce la distruzione.
E se “non c’è felicità che ti rianimi”, forse solo nel canto, nell’esaltazione di questa legge immutabile di annichilimento, noi possiamo ritrovare “ i motti e atti soavi” che diano profondità alle nostre parole, altrimenti destinate ad essere nient’altro che un inutile e forse volgare “ vago brusio” o, come Benn stesso ha scritto altrove, uno sterile e alienato “dialogo fra sedie”.
Scritte fra il 1951 e il 1953 le poesie di Frammenti e Distillazioni non sono forse l’esito più alto della ricerca di Benn, in qualche modo ne testimoniano il declino, ciò nonostante conservano una luciferina, fredda bellezza, che, nonostante la disperazione di cui sono intrise, le fa apparire necessarie epifanie di una mente che, sebbene “distrutta”, ha faticosamente raggiunto con esse la cupa quiete della maturità.
Gottfried Benn
“Frammenti, / espurghi dell’anima, / coaguli di sangue del ventesimo secolo” sono questi gli estremi sussulti che l’ispirazione in declino di Gottfried Benn lascia brillare in queste che sono due tra le sue ultime raccolte di versi, Frammenti e Distillazioni, che Einaudi ha pubblicato in un'unica soluzione, qualche anno fa, nella traduzione di Anna Maria Carpi. Autore di alcuni dei libri più memorabili del Novecento, il poeta tedesco ebbe la sventura di infatuarsi del nazismo, per poi rinnegarlo dopo poco, ma lo stigma gli rimase addosso per tutta la vita, impedendogli di raggiungere in vita quella notorietà che la sua opera avrebbe meritato. Subì un doppio ostracismo, prima da parte dei nazisti stessi, che mai si riconobbero nelle parole di questo outsider, innamorato di Nietzsche e che addirittura gli proibirono di pubblicare i suoi libri, in seguito da parte degli alleati che mai gli perdonarono la sua iniziale e breve adesione al nazismo.
Benn cerca la dissoluzione dell’ego, una regressione ai primordi pre-umani, un ritorno alle origini, che tradisce il suo fondamentale nichilismo,così questa raccolta testimonia della crisi di un’epoca, del suo declino, di un’interiorità avvolta nel bozzolo di un’inquietudine che solo il consumo di cocaina e alcol ha potuto alleviare, ma non si trova nelle sue parole nessuna esaltazione del vizio, si beve per “ coazione, impulso, fuga” . Anche la fede nella scrittura sembra vacillare, Benn sottopone la sua parola a una lacerante scarnificazione, e “distruzione” è una delle parole più ricorrenti nelle due raccolte, dove “ persino le rovine invecchiano”, rimane solo una domanda senza risposta: “perché esprimiamo qualcosa ?”.
Per questo esteta, la cui creatività andava spegnendosi, esistono solo abbozzi di risposta, “un priapismo formale”, un’eccitazione fine a se stessa, spinge la mano a tracciare i suoi ghirigori letterari, quando l’uomo è una creatura probabilmente penosa, costretta da un “interno vuoto” a ricercare nella scrittura la realizzazione di una possibile catarsi. Poiché “ciò che grande ha in sé la sua rovina” nulla sfugge alla dissoluzione, i regni passano, le idee si frantumano, cosa rimane? Per il poeta tedesco pare non esserci una soluzione positiva, né individuale, né collettiva, “brandelli di conversazione “, “ suoni morti”, “ultime luci, lungo bui giardini “ sono ciò cui inutilmente ci si aggrappa.
E’ l’impasse di un'ispirazione che vede la propria dissoluzione, le poesie registrano il declino personale e quello di un’epoca, e nemmeno l’arte, feticcio della giovinezza, può dare giustificazione all’esistenza, che rimane così mutilata del suo senso e delle sue profondità ignote. Allora non resta altro che celare se stessi “ con maschere e trucchi”, appagarsi unicamente di frammenti di voci appena udite, e subito dimenticate. Vi è in questi versi il riecheggiare della disfatta, una stanca nostalgia della vita, un’arida consapevolezza da cui non germoglia che l’anelito a un cielo” prossimo a spegnersi “.
Una “ smania di trasfigurazione “, destinata ad essere delusa, abita nel profondo di ognuno, ciò che si costruisce per l’eternità, nel “ flusso del tempo” ritorna “frantume”, il tempo logora ugualmente religioni, rose, torri, così “tutto va in pezzi, in attimi/ si frange rabbrividendo”. Ma se il tempo è condanna alla consunzione, “ che è davanti agli oceani ?” si chiede il poeta, aggiungendo che essi “c’erano prima/ di concepimento e coscienza”, così davanti a questa vertigine di regressione ai primordi della vita Benn sembra trovare il tanto agognato riscatto dell’esistenza tutta, altrimenti destinata a essere un “crollo” e una caduta senza alcun senso. Poco amante dei viaggi, Benn ha però una sensibilità particolare, capace di rendere allo sguardo l’incantesimo di terre lontane, la cui magia è però spesso tutta nel suono del loro nome, così La Paz, Fiesole, Ohio sono i segni musicali cui il poeta tributa una venerazione unicamente uditiva; ma su tutti i luoghi “ sull’estraneo, il lontano” incombe indifferente e feroce la distruzione.
E se “non c’è felicità che ti rianimi”, forse solo nel canto, nell’esaltazione di questa legge immutabile di annichilimento, noi possiamo ritrovare “ i motti e atti soavi” che diano profondità alle nostre parole, altrimenti destinate ad essere nient’altro che un inutile e forse volgare “ vago brusio” o, come Benn stesso ha scritto altrove, uno sterile e alienato “dialogo fra sedie”.
Scritte fra il 1951 e il 1953 le poesie di Frammenti e Distillazioni non sono forse l’esito più alto della ricerca di Benn, in qualche modo ne testimoniano il declino, ciò nonostante conservano una luciferina, fredda bellezza, che, nonostante la disperazione di cui sono intrise, le fa apparire necessarie epifanie di una mente che, sebbene “distrutta”, ha faticosamente raggiunto con esse la cupa quiete della maturità.
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