sabato 16 gennaio 2010
“Profanare significa restituire all’uso comune ciò che è stato separato nella sfera del sacro”.
Giorgio Agamben
Ormai saturi di Cristo e di romanzi, film, fiction, su di lui, e sulla sua figura, ci si immerge stancamente in questo libro di Saramago, e stancamente, per puro abuso di sé, si insiste nella lettura e qualcosa si coglie qua e là di affilato e interessante, una rivisitazione dei miti del vangelo, una decostruzione della millenaria cartolina parrocchiale. Il Gesù di Saramago diventa perciò un eroe minimo, casualmente dotato da Dio di facoltà soprannaturali, Dio Padre senza scrupoli, che intende sfruttarlo come attrattiva commerciale, ed è avido di conquistare il mondo grazie al sangue di questo figlio, che si trova autore di miracoli per caso e controvoglia, serbando dentro di sé un’inquietudine incalcolabile. E nessun Padre Eterno buono lo consola, lo ama, o cose del genere, egli, come tutti, è preso in giro da un dio invadente, in evidente combutta con il diavolo, e di chiara origine gnostica.
La Chiesa si scandalizza davanti a un libro del genere, anche per le solite ragioni di bottega, per il suo desiderio forsennato di negare al povero Cristo e ai suoi parenti l’ombra di un’avventura sessuale qualsiasi, perché lo scopo della chiesa è negare il corpo e il coito, a tutto vantaggio di una risibile anima da eternare. Così nel romanzo Cristo si congiunge carnalmente con la Maddalena, in pagine che però ho trovato incolori, assolutamente non all’altezza, per esempio, della rovente e realmente carnale versione di Lawrence. Il libro in sé è più interessante nel far emergere la figura di Giuseppe, il padre di Gesù, e nel descrivere la quotidianità, anche sessuale, con la mediocre e un po’ ottusa moglie Maria, in una ricostruzione attendibile, ma ben lontana dall’essere scandalosa. O forse sì, esiste ancora qualcuno che si scandalizza, se gli fanno a pezzi l’immaginetta da sagrestia e gli propongono un Cristo umano, reale, una sacra famiglia vista nella povertà dei suoi affetti, con personaggi qualunque, in un mondo qualunque, e quindi liberandoci dalle pericolose idealizzazioni infantili. Questo è sicuramente un pregio di Saramago, e rende questo romanzo comunque un libro da leggere, con cui magari, e questo è il mio caso, instaurare un conflitto.
Perché in fondo la sua decostruzione del mito evangelico non riesce fin in fondo ad essere distruttiva di tutti i pregiudizi, le stratificazioni mitologiche, che si sono addensate cupe intorno alla figura di Cristo, perché Saramago non intaccando la lingua, non mandandola in corto circuito, non crea personaggi o risonanze memorabili, non seduce e neanche sconcerta.
Il Cristo di Saramago a me pare un mediocre burattino poco interessante, il suo Dio è, ora una colonna di fumo nel deserto, che ha l’autorità e la solennità di un preside invasato, ora un barbuto affarista che d’accordo col diavolo, vuole sfruttare la fama e il martirio del suo povero figlio. Tutto questo fatto da Saramago con una certa crudeltà, che però, per chi ha letto per esempio Lautremont od Artaud, è troppo debole rispetto alla vastità del compito che può assegnarsi un artista, quello di essere iconoclasta. Rappresentare Dio come un cinico spregevole, indifferente alla sorte umana, non mi stupisce, non mi scandalizza, non mi dà il fremito del sacro, né della sua irrisione. Il testo di Saramago mi sembra perciò una satira non riuscita del vangelo, una satira che spesso annoia, e non produce pensiero di vera alterità, è caricaturale, pur nel suo naturalismo ostentato, senza conservare oltretutto nessuno spazio all’immaginazione, anche distruttiva, di un pensiero realmente liberato dalla presenza di Dio.
E nemmeno ci lusinga con le possibilità della divina imperscrutabilità e neanche ci seduce con l’assenza di Dio, che, come mostra Holderlin in un suo verso, è la massima consolazione. Il suo Padre eterno che vuole dominare il mondo e il diavolo suo simpatico alter ego non hanno risonanza, non sono terribili (e qui giova ricordare che sacer ha anche il significato di terribile in latino).
Sul piano del pathos, Saramago non ci trasferisce sulla pelle tutta la tragicità di Cristo, lo fa apparire sminuito, provinciale, una specie di Renzo Tramaglino turlupinato da Dio, e sul piano della ricostruzione storica, priva l’epoca delle sue profondità religiose, e oltretutto non ci restituisce neanche l’ombra di un mistero. Non so se questo sia un bene, o un male, ma fa apparire tutto consumato e invecchiato, come se questa vicenda cristica fosse un cumulo di rovine riscaldate da un sole pallido e mai abbastanza strafottente, un reperto di antiquariato culturale. Avesse il romanzo almeno qualcosa di realmente indecente, e cattivo, un digrignar di denti, un vivo disgusto dei nervi!
A meno che Saramago non abbia preso in giro tutti, presentando come romanzo storico quella che voleva essere soltanto una farsa, una pernacchia al lettore e al credente, ma allora il romanzo è gravato dalla troppo ostentata verosimiglianza e la pernacchia è troppo bene educata. Il libro mi convince unicamente perché mostra l’inutilità del sacrificio di Cristo; l’estrema futilità di tutta la faccenda può essere letta come una critica a qualsiasi macchinario mitologico, un tentativo, secondo me non riuscito, di smontarlo, per vedere di cosa è fatto. Operazione che rispetto a Saramago, Dürrenmatt ha fatto con più forza ne La morte della Pizia, per esempio.
A qualcuno potrebbe anche piacere questo Cristo assolutamente non vocato, antieroico, ma non aggiungendo sale o zolfo alla sua profanazione, Saramago, secondo me, non riesce a dare vita a un personaggio veramente interessante e anche il Padre Eterno pappa e ciccia con il diavolo è solo una povera macchietta d’avanspettacolo, che non fa più ridere, una specie di gangster altolocato. Oltretutto, sul piano della pura rappresentazione storica, l’epoca di Cristo, la Gerusalemme di duemila anni fa, rimane sullo sfondo, incomprensibile.
Il testo di Saramago mi ha fatto proprio l’effetto di una gaffe cinematografica, del tipo”l'antico romano con un orologio al polso”, perché il senso profondo, nascosto, di quell’epoca, è al servizio di un’idea molto moderna, quella dell’Assurdo; il rapporto con Dio, centrale nel periodo storico in cui Gesù Cristo è vissuto, non è provvisto nella prosa di Saramago, di quelle sottigliezze, anche demoniache, che il discorso meritava. Tutto mi sembra caricaturale, alla fine, specie l’incontro fra Gesù e il Padre, però in un contesto troppo naturalistico. SI percepisce una vena comica, che però non fa esplodere quel folle riso pieno di bile, che i francesi chiamano rire jaune e quindi il libro non è efficace neanche come sconsacrazione.
Sul piano psicologico i tormenti di Gesù appaiono patetici e i personaggi, insignificanti, hanno Dio sulla bocca costantemente, ma in cuor loro sono vuoti. In questo io vedo una visione dell’esistenza che ha più a che fare con la nostra contemporaneità di “Hollow Men “, che con l’umanità rappresentata nei Vangeli.
E’ tutta una faccenda molto domestica, con questa Maria tanto piccolo borghese, e questo Giuseppe, despota mite e gran lavoratore; una vicenda plausibile, e un po’ sordida, come tutte le vicende umane, in cui Gesù fa la figura di una vittima poverina; è un personaggio che ci fa provare quel tipo di compassione un po’ schifata che di solito riserviamo, senza ammetterlo, a chi sta peggio di noi. Non ha nessuna tragicità, zero mistero, niente fascino.
Avesse esagerato col grottesco almeno, no, invece si vira verso questo naturalismo, questa prosa gonfia. Mi è sembrata nel complesso un’operazione a tavolino, con una scrittura avviluppante e vischiosa, ma questo potrebbe essere un problema della traduzione. Secondo me, il romanzo non raggiunge quasi mai la potenza della narrazione esatta, tranne, come ho già detto, nel ricostruire la figura di Giuseppe, perché Saramago ridimensiona senza profanare realmente, dando ai vangeli una veste forse ridicola, ma politicamente scorretta ad arte, certo non scurrile né inquietante, cosa che perlomeno avrebbe avuto il senso di una vera e propria profanazione. Fare a pezzi il sacro, piuttosto, frantumarlo, restituirci di esso solo le macerie, affinché noi si possa giocare con esse.
Saramago si tiene nei limiti, nella sua parodia- oltretutto gravata dal tentativo di costruire una verosimiglianza da romanzo storico- è incapace di eccedere, cioè di arrivare alla crudeltà della vera e propria satira, e non riesce neanche a farci percepire il Male, o il suo fascino, ne fa una questione irrisoria. Così sembra il resoconto di una vita qualunque, poco interessante, per nulla tragica, ma solo patetica; il che potrebbe anche essere per alcuni una rivelazione. Ciò fornirebbe perlomeno una sorta di alibi a Saramago, il cui tentativo di una scrittura satirica, se c’era, è fallito, perché il liberatorio sberleffo della satira in questo libro, in fondo così classico ed educato anche nello stile, sempre eccessivamente didascalico, non c’è, manca, e allora a che pro, mi chiedo io? E chiudo il libro con un bah, rimpiangendo piuttosto l’indecifrabile “L’Amore assoluto”di Jarry, che perlomeno si regge su una scrittura misteriosa; oppure rimpiangendo, sul piano metafisico, il Dio da scagliare sulla terra che c’è in una poesia di Baudelaire. E se si stratta di decostruire i miti, anche della letteratura, preferisco piuttosto il geniale sberleffo al concetto di romanzo storico, che c’è in Super Eliogabalo di Alberto Arbasino.
Qui si sente troppo la Storia, la volontà comunque di essere attendibili, si sente troppo la fatica di ricostruire in maniera verosimile un’epoca scomparsa- secondo me non riuscendoci- ma non viene frammentato Cristo in un montaggio schizoide, il solo che possa rendere ancora interessante il concetto di Dio; e penso anche a certi brani su Cristo del poema L’mal de fiori di Carmelo Bene. Non mi dice niente questa prosa piana, magniloquente, classica, monotona, che lo scrittore portoghese affastella in pagine e pagine, senza darci mai un fremito, omettendo in maniera impropria tutto l’apparato mistico e religioso, oppure riducendolo a pura appendice di un’affabulazione contemporanea. Se noi pensiamo in maniera moderna, riduciamo a zero tutte le fascinazioni di un’epoca, e questo mi sembra abbia fatto Saramago, che crea la sua favola dalle misere macerie di Dio.
Sul piano storico, il suo Cristo, che non ha nessuna autorità, nessuna solennità, spaesato come un pulcino appena nato, preso in giro da una divinità crudele, non ha molto dell’ebreo antico, e nulla del profeta. Dove sono tutte le vicissitudini interiori che hanno fatto interessante la figura di Cristo? E il Padre Eterno, e il diavolo suo aiutante, mi sembrano due personaggi senza profondità, troppo riconoscibili come derivazioni contemporanee; e il tutto sembra essere una favola moderna, magari un po’ amara, ma neanche tanto, in cui Gesù Cristo non ha più senso di Peter Pan, o Pinocchio. Cosicché mi chiedo se questo non fosse in realtà lo scopo di Saramago, allora però avrebbe dovuto stilisticamente stracciare la veste di”romanzo storico”che ha voluto dare al suo libro. Non è solo il mito di Cristo che deve essere smontato, a questo punto, anche quello della letteratura merita lo stesso trattamento.
Quello che voglio dire è che questo romanzo, per differenti ragioni, ai miei occhi sparisce subito, se si sono letti, oltre agli autori già citati, Sade, Artaud, Nietzsche, Lagerkvist, o anche soltanto Giuseppe Berto, autori che sul corpo di Dio e di Cristo hanno scritto la loro solitudine e la loro condanna, o il lusso di una risata demistificatoria. Questo Dio onnipotente ma troppo umano, che Saramago descrive, è una caricatura senza mistero, che non fa ridere, e che non è degna nemmeno di essere oltraggiata, rendendo così inutile il gesto di una qualsiasi profanazione. Io sono convinto che in letteratura uno debba giocarsi la pelle, ”la mente alla roulette dell’assurdo”, come scrive Artaud, e non affabulare per intrattenere, senza per altro riuscirci, come fa Saramago in questo libro, narratore onnisciente con linguaggio appesantito, che strizza troppo l’occhio al lettore, e ammicca.
Detto questo, è un libro che si può consigliare a coloro che hanno di Cristo una visione idealizzata, per riportare sulla terra e nella carne la sua esperienza, ma perché negare come fa Saramago, tutta la misteriosità che, in effetti, circonda la figura del Nazareno? Rimprovero anche questo allo scrittore portoghese, oltre al fatto che il ghigno demoniaco che profana ridendo, gli manca. Poteva essere ancora più liberatoria l’affermazione di una blasfemia più profonda; abbandonarsi a questo punto a una scrittura veramente crudele, che violentasse profondamente la nostra sensibilità verso il sacro e ci lasciasse sgomenti, profondamente vuoti, e senza Dio.
Quello che comunque mi piace di questo libro, è che tenta timidamente la via di una profanazione, che però ci lascia senza mistero, senza zone d’ombra; è una parodia a cui manca la vera crudeltà demistificatoria, la sola, secondo me, che potrebbe rendere ancora interessante questo soggetto letterario ormai esausto. Scarnifica il burattino Gesù, in un certo modo lo umilia a puro strumento di un Padre cinico, ma lo priva talmente di spessore, che quella evangelica diventa una vicenda più patetica che tragica. Per questo dico “almeno avesse virato nel grottesco !”, come fa Carmelo Bene, per esempio, nella raffigurazione di Giovanni Battista, degli apostoli, di Cristo stesso, che c’è nel film Salomè. In questo romanzo non c’è neanche il folle e sano antistoricismo, che si ritrova, per esempio, nell’Eliogabalo di Arbasino, il quale ci concede, aristocraticamente, il lusso di ridere della Storia, e della pretesa di rappresentarla- qui tutto pare molto, troppo, assennato.
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Altrove Saramago butta a mare ogni culto mariano, prima raffigurando questa Maria mediocre e insignificante- e in questo senso è apprezzabile la sua vena dissacratoria - in seguito mostrando che è evangelica, cioè si trova nelle stesse parole di Cristo, una delle più fenomenali negazioni della famiglia; del resto, cosa ci si poteva aspettare da un asceta, che fosse mondano? In questo Il Vangelo secondo Gesù Cristo può essere anche illuminante; credo che per altri lettori possa essere comunque una rivelazione, perché la ricostruzione dei rapporti umani, anche se non avvincente, è plausibile, ma, secondo me, gli manca il sacro pathos sia della preghiera, sia della bestemmia.
in questo senso, mostra che Dio è veramente morto, è un concetto sorpassato, è uscito dalla Storia, è giusto una cosa buona per la pubblicità della Lavazza, e la cosa non desta più la minima preoccupazione, o l’ombra di un rimpianto, chi potrà resuscitarlo? Certo non la letteratura.
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